VI

Dal Teatro comico» alla «Locandiera»

Il Teatro comico fu scritto come prima commedia del famoso anno delle sedici commedie nuove (quando Goldoni volle rispondere alla concorrenza del Chiari con una prova di eccezionale vigore inventivo), come presa di posizione all’inizio di un anno cosí decisivo in cui il poeta si impegnava senza riserve a provare coi fatti la vitalità del suo ingegno e la bontà della sua riforma continuamente in atto e coincidente con il suo concreto operare artistico.

In questo anno (in cui si accompagnano commedie vitali e commedie piú frettolose e sciatte) ed in tutto il periodo fecondo che culmina nella Locandiera (1753), il Goldoni ha sentito con particolare vigore la vita dei personaggi, lo scatto elastico del ritmo vitale nel personaggio che domina ed organizza la situazione intorno a sé anche quando è ridicolo e meschino come il Don Marzio della Bottega del caffè e non cosí fortemente cosciente della propria natura e dei propri intenti come invece sarà Mirandolina. Piú tardi il Goldoni raggiungerà piú alte qualità di misura, di raffinatezza squisita e di vera poesia armonica ed intima, ma certo in questo periodo egli ha vissuto con singolare energia la vitalità del personaggio ben individuato ed accordato con la situazione concreta che lo giustifica: e naturalmente non si pensi alla vitalità del personaggio-individuo del preromanticismo e dello Sturm und Drang, ma a quella di un mondo sentimentale in cui energia e vita hanno un loro caratteristico autolimite e non significano sforzo di liberazione e di anarchica affermazione, bensí avventura nel limite della realtà e di una saggezza esperta, serena, fiduciosa, capace di serietà e di comicità.

Già nel Bugiardo (ripresa nel 1750 di una commedia già stesa nel ’48 e piú vicina al gusto di energico giuoco scenico del Servitore di due padroni) il personaggio centrale, il glorioso autore di «spiritose invenzioni», è personaggio vivo, singolarmente attivo ed anzi la commedia sembra proprio una felice ricerca di accordare una situazione poco profonda e scavata intorno al rilevatissimo personaggio al cui rilievo ed al cui ritmo di azione e di individuazione servono gli altri personaggi minori e lo sfondo piacevole di una Venezia pittoresca e teatrale.

Ed anche nella Bottega del caffè, in cui il Goldoni adopera piú efficacemente una formula di «coralità», di espressione di tutto un piccolo angolo di vita paesana attraverso gli interventi abilissimi di numerose voci (ma assai lontana è ancora la poesia veramente corale di un Campiello o delle Baruffe chiozzotte, ché qui siamo ancora piú sul piano dell’attenzione che della profonda simpatia affettuosa per la realtà umana), un personaggio (il Don Marzio pettegolo e maligno, maniaco nel suo volgere tutto nel senso peggiore, nel vedere in tutti bassi interessi ed immoralità) vive soprattutto e tutto movimenta e conduce, sicché anche nello stesso finale, tutte le accuse che si accumulano sullo sconfitto Don Marzio servono in realtà a metterne ancora piú in rilievo la singolare caratterizzazione, la precisa centralità di vero motore della commedia.

Dopo il Bugiardo e la Bottega del caffè si svolge la serie delle altre «commedie nuove», inizialmente piú ricche di energia e di questa fondamentale attenzione al personaggio centrale ed alla situazione che per questo vive, e poi a mano a mano piú deboli e ripetitorie con ricorsi a soluzioni piú esteriori, a motivi meno centrali ed interessanti, ad espedienti romanzeschi (come nella Dama prudente), a facili surrogati della vitalità del personaggio attraverso ripieghi piú farseschi (La finta malata, con la scialba figura della fanciulla che si finge malata perché innamorata del giovane medico, o l’Incognita, che è un puro giuoco di agnizioni di origine cinquecentesca) o ricordi autobiografici (L’avventuriero onorato) che denunciano verso la fine dell’anno famoso una certa stanchezza in questa gara di eccezionale bravura inventiva.

Ma a parte questa certa stanchezza finale ed una diversa felicità di risultati legata alla necessità di reggere al programma preciso del numero (16 commedie nuove in un anno) che induce il Goldoni ai ripieghi notati alla fine dell’anno, ma presenti anche nel corso del periodo piú intenso (cosí nel Giocatore, che è solo un corollario debolissimo della Bottega del caffè), questa fase, al segno dell’inventività, della novità di situazioni ancorate al rilievo di un personaggio, è ricca appunto di una folla di figure e caratteri vitali: l’Adulatore, il Poeta fanatico, il Cavaliere di buon gusto[1], la Pamela, la Donna volubile, il Vero amico, le Femmine puntigliose.

Il personaggio (piú scavato e rilevato intimamente come nella interessante mercantessa delle Femmine puntigliose o nel saggio Cavaliere di buon gusto o soprattutto nella Pamela della commedia omonima, cosí interessante per l’apertura del Goldoni ai motivi nuovi del proprio tempo[2] per l’attenta interpretazione dell’animo femminile su cui egli fece sempre le sue prove piú convincenti dal punto di vista dell’intelligenza psicologica o piú risolto in scatto esterno di energia vitale come nella Donna volubile, uno dei tanti esercizi di preparazione alla figura di Mirandolina) anima una situazione intorno a sé, come avverrà anche nella nuova ripresa dopo l’intermezzo un po’ particolare dei Pettegolezzi delle donne e Molière, che aprí la nuova annata teatrale del ’51.

I pettegolezzi delle donne fu scritta come ultima delle «sedici commedie nuove» per l’ultima sera di carnevale e con l’intenzione dichiarata di rivolgersi soprattutto al pubblico piú popolare che affollava i teatri in quell’ultima sera di festa (ed il Goldoni la chiamò appunto come le altre commedie veneziane «tabernarie carnevalesche»). Ma sotto la giustificazione piú esterna (commedia per il popolino degli artigiani e dei gondolieri), risalta in questa commedia (nel ricordo di certi anticipi degli Intermezzi e di certe scene della Putta onorata e della Buona moglie) l’attenzione del Goldoni verso un mondo popolare istintivo e semplice, animato da uno spontaneo amore della vita, insaporito dall’eco di cose comuni, di vicende quotidiane intorno ad un filo di azione quanto mai semplice e poco vistoso: tanto da sembrare agli occhi di Carlo Gozzi triviale ed impoetico.

Ed era invece la scoperta di una zona inesplorata e piú ricca e congeniale al Goldoni che non quelle scene esotiche e romanzesche in cui nel periodo successivo egli cercherà invano di suscitare una poesia che nasceva tanto piú sicuramente sull’affettuosa interpretazione di questo mondo umile e vicino. Ed era insieme (assai piú del piccolo mondo della Bottega del caffè, pur cosí felice nel suo risultato piú armonico e concluso) un mondo suscettibile di una interpretazione teatrale nuova e corale a cui piú intimamente il Goldoni tendeva. Ma si tratta di una esperienza ancora immatura e come isolata in un periodo in cui il Goldoni puntava piú decisamente sulla costruzione del personaggio-carattere e sulla «invenzione» di situazioni nuove ed interessanti. I pettegolezzi delle donne non hanno infatti vero rilievo di personaggi e d’altra parte, nei confronti delle grandi commedie veneziane, anche di quelle piú costruite in maniera simile (Campiello, Baruffe chiozzotte) han qualche cosa di piú dispersivo: un po’ come le Massere, anche se pur queste non hanno l’approfondimento piú intenso, musicale, della vita quotidiana nella sua atmosfera poetica e suggestiva.

E ciò che colpisce di piú da un punto di vista di abilità artistica è proprio – fedelmente al titolo – il gioco sottile, ma piú esterno con cui sono condotti i pettegolezzi delle donne di bocca in bocca sino alla presunta identificazione del padre di Checchina nella figuretta caricaturale di Abagiggi (preso dal «vero»[3] da un «personaggio ridicolo, noto a tutti in questa nostra città»[4]) e poi riportati a ritroso di bocca in bocca fino alla loro fonte e risolti dal riconoscimento del vero padre di Checchina. Sicché anche nella costruzione aperta, mentre manca l’intima armonia che troveremo malgrado tutto nelle Baruffe, al posto della conclusione armonica delle stesse migliori commedie di questo periodo c’è un filo di legame piuttosto schematico ed esterno.

A questa prova isolata e cosí interessante nell’impostazione piú chiara di un tema che si rivelerà poi come vero e profondo tema poetico, si accompagna all’inizio del ’51 un’altra esperienza anch’essa interessante anche se in se stessa fallita ed anticipatrice di una maniera nettamente inferiore e tuttavia (come vedremo poi) non priva di importanza nello svolgimento goldoniano.

Si tratta del Molière, una commedia artisticamente debolissima e assai noiosa[5], ma interessante come prima prova goldoniana di una commedia in versi (e proprio i famigerati martelliani accettati un po’ controvoglia, perché graditi al pubblico[6]), nello schema piú letterario di ritmo decoroso, e di lunghe e discorsive battute: uno schema di esercizio piú letterario di cui vedremo fra breve l’affermazione piú prolungata nella gara con il Chiari.

Ma dopo questa commedia c’è una ripresa vigorosa della ricerca del personaggio vitale e centrale in una situazione attiva e dinamica come può provare soprattutto bene quella notevole opera che è la Castalda con il personaggio di Corallina, la castalda, piena di malizia e di energia nel realizzare i suoi piani matrimoniali, che appare l’anticipazione piú vicina di Mirandolina: come può vedersi in questo dialogo tra Corallina che fa la sdegnosa e Pantalone ingenuo innamorato ma restio al matrimonio.

Corallina:

Ma qualunque sia la cosa, signor padrone, ci siamo intesi; se voi vi maritate, me ne vado immediatamente.

Pantalone:

Donca per mi el matrimonio l’ha da esser bandio.

Corallina:

E se aveste giudizio, non ci dovreste pensar nemmeno.

Pantalone:

Mo per cossa? Songio mi el primo vecchio che parla de maridarse?

Corallina:

Se i mali esempi servissero di scusa, tutti potrebbono giustificarsi.

Pantalone:

Dove fondeu la vostra rason, per creder che fusse in mi sto gran mal, se me maridasse?

Corallina:

Prima di tutto nella vostra età pericolosa per voi, e poco comoda per una consorte. Secondariamente per causa della vostra salute, alla quale non può che pregiudicare il matrimonio. Poi per la vostra economia, che con una moglie vedreste precipitata; e finalmente, perché in quest’età, con una sposa al fianco, andreste a pericolo, che al quadro delle vostre nozze facesse alcun le cornici.

Pantalone:

Circa sto ultimo ponto, gh’aveva in testa che no ghe fusse pericolo. Perché son omo de mondo. So cognosser i caratteri delle persone, e no me imbarcherave senza navegar al seguro.

Corallina:

Chi vorreste voi trovare, che vi rendesse certo contro le persecuzioni della gioventú? Qualche vecchia forse?

Pantalone:

Oibò! Co avesse da farla, la vorave zovene.

Corallina:

E con una giovane al fianco, un vecchio come voi siete...

Pantalone:

Ma no ghe ne xe delle zovene da ben e onorate?

Corallina:

Ve ne son certo. Ma trovarle, quando si vogliono...

Pantalone:

Per esempio: vu no saressi una de quelle?

Corallina:

Io? Vi è alcun dubbio? Non sono io una giovane onesta? Mio marito non si è mai doluto di me.

Pantalone:

E se ve tornessi a maridar, faressi l’istesso con el segondo marío.

Corallina:

Io non mi mariterò mai, per non lasciare il signor Pantalone.

Pantalone:

Ve poderessi maridar senza lassarme.

Corallina:

Quando avessi marito, non potrei servir il padrone.

Pantalone:

Serviressi el marío.

Corallina:

E se mio marito non volesse, che io servissi il signor Pantalone?

Pantalone:

E se sior Pantalon fusse vostro marío?[7]

In questo periodo la tensione a rilevare la vitalità nel personaggio-carattere spinge il Goldoni a provare piú volte in situazioni coerenti personaggi cui particolarmente va la sua simpatia di creatore: il personaggio femminile nella sua complessità di saggezza e di estro, nel suo fascino e nella sua capacità di malizia, ma soprattutto volitivo e vitale, e, nella folla varia di personaggi (la saggia e sensibile dama della Moglie saggia, la serva paziente fino al sacrificio per l’affetto che porta al giovane padrone perseguitato nella Serva amorosa, il nobile scialacquatore reso malvagio da un amore extra coniugale nascosto sotto l’equivoco del cavalier servente come l’Ottavio della Moglie saggia, o il marchesino vanerello e prepotente del Feudatario, o la dama puntigliosa dei Puntigli domestici e la folla dei servitori individuati al di là della loro origine di maschere), il personaggio del vecchio comprensivo ed esperto, umano e concreto, il Pantalone che trionferà nella Figlia obbediente e che si presenta con particolare forza nell’altra commedia notevole della ripresa dopo il Molière, Il tutore[8].

E proprio La figlia obbediente e La locandiera sono le opere piú significative e piú riuscite di questo lungo periodo, in cui il poeta teatrale ha superato le difficoltà iniziali dell’accordo fra ritmo scenico e ritmo vitale nel personaggio e nella situazione comica sempre meglio approfondita ed espressa con adeguati mezzi tecnici.

La figlia obbediente è soprattutto un’affermazione di singolare vitalità comica, un’opera di singolare efficacia teatrale, ricca di personaggi ben rilevati e singolari nei loro caratteri anche se un po’ separati in due gruppi assai distinti e non perfettamente fusi in quella unica dimensione di umorismo e di tenerezza, di serietà e di comicità che sarà tipica di un momento piú alto dell’arte goldoniana.

Da una parte sono Florindo (l’innamorato, la figura piú debole e convenzionale), Rosaura (la figlia obbediente, che innamorata di Florindo è pronta a sacrificarsi alla volontà del padre che la vuole sposare al ricco conte Ottavio: personaggio interessante per certa sua venatura malinconica, ma un po’ forzata nella sua rassegnazione e nel suo rispetto filiale), Pantalone (il padre prima autoritario e prepotente nel costringere la figlia alle nozze con il conte Ottavio, poi, quando Rosaura cede ed anzi mostra persino di essere lieta di non angustiarlo, incerto, turbato, ansioso al pensiero di aver sacrificato la figlia tanto teneramente amata; personaggio molto scavato e spia di una sensibilità umana profonda e di un’alta capacità di rappresentare le trepidazioni, le ansie, di un animo comune se si vuole, ma tanto umano e spontaneo); dall’altra sono Beatrice (l’opportunista faccendiera, accomodante ed egoista che sta sempre col piú forte, volgaruccia nelle sue malizie e nei suoi desideri, incapace di comprendere la pena delicata dell’amica Rosaura che prima aiuta nel suo amore con Florindo e che poi cerca di disporre ad accettare la mano di Ottavio), il conte Ottavio (singolare figura di nobile rude, bisbetico e volgare, prepotente e pauroso, bizzarro nelle sue offensive generosità e nel suo disprezzo per tutto e per tutti, disposto a credere tutto lecito alla sua ricchezza ed alla sua nobiltà), e poi, piú apertamente comici, ma non privi di ombre equivoche che li rendono piú singolari, Brighella e la figlia Olivetta, la ballerina tutta chiusa nella sua bellezza e nei suoi equivoci trionfi come il padre è tutto preso dal suo fanatico orgoglio della cambiata situazione sociale, servile quando crede di aver perduto i bauli e i guadagni accumulati, comicamente altezzoso quando può spiegare gli argenti ed i segni del suo agio economico.

E il giuoco scenico come si è fatto sicuro e complesso e ricco, ben superiore a quello pur abilissimo, ma tanto piú secco e mimico del Servitore di due padroni!

Ma la vitalità della Figlia obbediente rimane pur sempre, malgrado la sua ricchezza di spunti piú intimi, nell’ambito dell’efficacia teatrale che comunque non raggiunge l’unità e l’intensità che è raggiunta dalla Locandiera, capolavoro di questo periodo e nodo essenziale nello sviluppo dell’arte del Goldoni.

In quest’opera è veramente il trionfo della simpatia creativa per il personaggio mai come qui pienamente rilevato tutto in azione sulla scena, ricco di pieghe psicologiche, di morbidi e complessi indugi che lo rendono affascinante, ma alla fine sempre lucido e sicuro, capace di controllarsi minutamente e di volgere i propri estri, di sfruttare la propria acuta sensibilità al fine di realizzare i propri disegni. Mirandolina (in cui il personaggio sembra usufruire del vivo stimolo di una attrice, la Marliani, – e la stessa Mirandolina è grande attrice –) è la dominatrice della commedia e la sua vitalità esuberante e complessa, ma tutta inscritta in un disegno elastico e lucido, supera con il suo scatto morbido ed energico ogni ostacolo che si frappone alla sua volontà, al suo desiderio di essere corteggiata, di fare a proprio modo e insieme di «badare al sodo» (come dice piú volte il Goldoni), di fare i propri affari di locandiera, di assicurarsi tranquillità ed agio.

Sicché tutti gli altri personaggi[9] (tutti ben individuati, ma tanto piú semplici di Mirandolina) son come destinati a far risaltare la sicurezza della protagonista, a costituire ostacoli che la sua forza facilmente supera. Mirandolina agisce e si controlla (donde i monologhi che sono essenziali ad un personaggio la cui azione è dettata da istinto e calcolo, da natura e ragione) e cosí le è facile, nel perfetto dominio della propria sensibilità e del proprio fascino, raggiungere rapidamente (ed anzi il ritmo cosí perfetto, ma cosí rapido con cui il cavaliere misogino – ma misogino perché inesperto[10] – è condotto a capitolare e a passare dall’ostentato disprezzo ad una passione incontrollata, può apparire persin troppo rapido e lo stesso Goldoni cercava di giustificarsene nella prefazione) il suo intento, chiaramente enunciato con termini persin troppo programmatici nel monologo della scena 9 del i Atto:

Uh, che mai ha detto! L’eccellentissimo signor marchese Arsura mi sposerebbe? Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l’arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, oh, avrei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s’innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono di sposarmi a dirittura. E questo signor cavaliere, rustico come un orso, mi tratta sí bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto piacere di trattare con me. Non dico che tutti in un salto s’abbiano a innamorare: ma disprezzarmi cosí? è una cosa che mi muove la bile terribilmente. È nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che non l’abbia trovata? Con questi per l’appunto mi ci metto di picca. Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati; e voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.

E in verità l’estrema lucidità e la serrata rapidità con cui l’azione vien condotta da Mirandolina fino alla fine del II Atto porta la commedia ad una possibile conclusione che ne avrebbe assai limitato il valore in una mirabile gara di altissima abilità (e naturalmente di alte capacità artistiche specie nelle grandi scene fra il cavaliere e Mirandolina nel II Atto). Ma il Goldoni, che confessa una sua prima incertezza («io non sapeva quasi cosa mi fare nel terzo [atto]»[11]), seppe proprio nel III Atto dare una risonanza piú vasta al personaggio e alla sua situazione con un capovolgimento geniale e una nuova affermazione della sicurezza, della energia volitiva di Mirandolina tanto piú illuminata dal momento breve di esitazione e di spavento che la afferra quando teme di non poter piú controllare ciò che essa stessa ha provocato.

Nella celebre scena della stireria le arti di lusinga di Mirandolina si cambiano in un energico e preciso giuoco di ripulse e di cortesie che finiscono per portare il cavaliere ad una furia pericolosa. Allora Mirandolina (ed è l’altro monologo essenziale della scena 13 del III Atto) è improvvisamente preoccupata per la sua «riputazione» e addirittura per la sua vita, si pente «quasi» di quel che ha fatto. Ma subito si riprende, si esorta a «risolvere qualche cosa di grande» (quasi la spia di quanto vi può essere di eccessivo in questo autocontrollo e in questa esaltazione della abilità di Mirandolina), e si risolve a sposare Fabrizio, il servitore fedele; perché cosí può «sperar di mettere al coperto il suo interesse e la sua riputazione, senza pregiudicare alla sua libertà»:

Oh meschina me! Sono nel brutto impegno! Se il Cavaliere mi arriva, sto fresca. Si è indiavolato maledettamente. Non vorrei che il diavolo lo tentasse di venir qui. Voglio chiudere questa porta. (serra la porta da dove è venuta) Ora principio quasi a pentirmi di quel che ho fatto. È vero che mi sono assai divertita nel farmi correr dietro a tal segno un superbo, un disprezzator delle donne; ma ora che il satiro è sulle furie, vedo in pericolo la mia riputazione e la mia vita medesima. Qui mi convien risolvere qualche cosa di grande. Son sola, non ho nessuno dal cuore che mi difenda. Non ci sarebbe altri che quel buon uomo di Fabrizio, che in un tal caso mi potesse giovare. Gli prometterò di sposarlo... Ma... prometti, prometti, si stancherà di credermi... Sarebbe quasi meglio ch’io lo sposassi davvero. Finalmente con un tal matrimonio posso sperar di mettere al coperto il mio interesse e la mia riputazione, senza pregiudicare alla mia libertà.

Tutta la commedia è fortemente articolata, e all’energia del personaggio, alla sua lucidità ed elasticità (sempre però settecentescamente mediata attraverso una finezza e una grazia che in questa diversa disposizione anticipano le misure piú squisite del grande periodo veneziano finale) corrisponde una singolare chiarezza ed efficacia nella costruzione organica della commedia, nella funzione dei personaggi minori e delle loro parti create a preparare e spaziare il centrale procedere della situazione ed a meglio precisare l’atmosfera cosí nitida e concreta della scena (la locanda fiorentina con il suo nitido colore, con la sua semplicità di buon gusto[12]), nel linguaggio che non ha la vibrazione piú intima delle grandi commedie veneziane, ma che è coerentissimo in questa prova di efficacia, di freschezza, di chiarezza: vera prova teatrale capace di adeguare i sottili movimenti della malizia di Mirandolina, le sue reticenze, i suoi falsi imbarazzi, le sue provocazioni abilissime. Non piú il linguaggio ridotto a pura sottolineatura d’azione mimica come nel Servitore di due padroni, né ancora linguaggio tutto poetico e suggestivo come nelle grandi commedie veneziane, ma linguaggio aderente alla poetica di questo periodo, al rilievo dell’azione del personaggio, della sua vitalità sinuosa ed energica.


1 Personaggi vivi e interessanti per la simpatia del Goldoni verso un mondo borghese che si afferma con i suoi valori nuovi e con la sua forza economica dentro il vecchio mondo aristocratico in decadenza.

2 L’interesse di questa commedia è infatti non tanto nel suo risultato artistico inficiato da un certo sentimentalismo e moralismo che il Goldoni venne poi superando in un senso di saggezza e tenerezza tanto piú intimo e poetico, quanto proprio nel suo significato culturale (la simpatia per le virtú nuove, l’ardita affermazione della uguaglianza naturale degli uomini al di là delle distinzioni sociali – democratico «senza aver letto Rousseau», come dirà il Gramsci –) anche se questa mentalità nuova non avrà l’audacia del rivoluzionario e si celerà nel finale della commedia in una prudente e scialba agnizione di Pamela non povera e contadina ma figlia di un nobile e quindi degna in ogni caso delle nozze con Milord Bonfil.

3 Ed anche in questo gusto di caricatura, cosí esplicitamente dal «vero», si può constatare la differenza di questa commedia da quelle del periodo 1760-1762, in cui questo gusto fotografico è abolito e la verità dell’arte non ha bisogno della cruda verità della cronaca.

4 Opere, ed. cit., vol. III, p. 1009.

5 E fastidiosa per il travestimento dolciastro e banale della figura seria e malinconica del grande commediografo, come avverrà suppergiú per Terenzio e per Tasso nelle commedie omonime (e come sbiadito il Pirlone che riprende Tartuffe attraverso il Gigli!)

6 Come il Goldoni spiega nella prefazione «A chi legge», che è del 1762: «Meglio sarebbe stato per me, se cotal verso non fosse stato universalmente gradito. L’applauso ch’egli ebbe m’indusse a valermene in qualche altra commedia... principai io medesimo ad annoiarmi, pure, se volea che le mie commedie fossero sulle scene sofferte, mi convenia, mio malgrado, seguitare la stucchevole cantilena» (Opere, ed. cit., vol. III, p. 1078). E nella lettera al Maffei, del 1753, – molto interessante per una ulteriore storia della riforma fatta dal celebre letterato arcadico – aveva chiaramente detto come la sua preferenza fosse in assoluto per la prosa, non per il verso di qualsiasi tipo.

7 La castalda, Atto II, sc. 13.

8 O si affida a compromessi fra il farsesco (la falsa fucilazione di Arlecchino) ed il pittoresco (piuttosto da vaudeville) di particolari costumi, come avviene appunto nell’Amante militare o nel Feudatario con l’ambiente militare e campagnolo. Anche in questo periodo non manca poi la «tabernaria carnevalesca»: Le donne gelose, che vale soprattutto per un singolare gusto del linguaggio veneziano esplorato con maggiore attenzione nelle sue possibilità di festosa vivacità in accordo con un movimento minuto e sinuoso di brevi battute, di interventi fitti di voci, ad esprimere un piccolo intrigo in un piccolo mondo di curiose gelosie, di equivoci presto risolti: un anticipo di quelle «tempeste in mezzo alla calma» che sarà la formula goldoniana delle grandi commedie veneziane.

9 Le due attrici che posano a grandi dame e poi cordialmente accettano la loro vera parte, il ridicolo, spiantato e pretenzioso marchese di Forlipopoli, il deciso conte di Albafiorita, forte della sua sicura consistenza economica, il falso misogino cavaliere di Ripafratta, l’onesto e semplice Fabrizio, tutti entro una graduazione sicura delle loro connotazioni sociali e dei loro individuali caratteri.

10 Almeno inesperto di donne della razza di Mirandolina, ché delle commedianti egli saprà bene sbarazzarsi.

11 Nell’avvertimento al lettore (Opere, ed. cit., Milano 1940, vol. iv, p. 780).

12 L’Ortolani dice che la scena è collocata a Firenze per pura finzione, e che essa riflette sempre invece Venezia e la sua vita. Credo invece che in questo caso il Goldoni abbia davvero ripensato alla sua esperienza toscana e che ne abbia tratto suggerimenti e per il colore della scena, per il linguaggio (con cauti toscanismi, ma tutto con una certa inclinazione a piú forte mimesi del toscano corrente specie in Mirandolina), e per la stessa figura di Mirandolina che, con la sua lucida intelligenza e con la sua concretezza poco sentimentale e punto indulgente, fa tanto pensare ad un carattere molto fiorentino.